Si sono celebrati mercoledì 27 novembre nella chiesa parrocchiale di San Giuseppe a Sesto San Giovanni i funerali di Alessandro Di Giovanni, il diciannovenne che da anni ha convissuto con una grave malattia. Un’esistenza, quella di Ale, che ha lasciato un segno importante nelle vite delle tante persone che lo hanno incontrato. Alla cerimonia funebre erano presenti quasi 1500 persone, la metà giovani. Pubblichiamo il testo dell’omelia.
“Caro Ale,
quanta dolcezza e quanto amore in questi giorni di dolore immenso! Dolcezza per quello che sei stato e continui a essere per noi, amore per tutto questo affetto che ti circonda, che ti avvolge come un bellissimo manto di tenerezza.
Scusami se ti scrivo una lettera, sappiamo tutti che tu non hai mai fatto i discorsoni, ma noi oggi abbiamo bisogno di dirti tante cose, tantissime. E anche perché non avrei potuto parlare di te in terza persona, perché, anche se non ti vediamo più, ti sentiamo incredibilmente vivo, in un modo che non avremmo mai pensato.
Secondo i medici questa celebrazione avremmo dovuto viverla 15 anni fa, forse anche 19. Eh sì, lo sai: la malattia che avevano scoperto quando eri bambino (rara anche questa, rara come te) e che si era manifestata molto tardi non avrebbe dovuto neanche farti nascere, tantomeno sopravvivere in quei primi anni. Eppure tu hai vissuto. E che gioia pensarlo! Se non fossi guarito non ci saremmo mai conosciuti, non ti avrebbero conosciuto i tuoi amici, i ragazzi, la gente. La tua famiglia ti avrebbe perso quasi subito e tu invece hai regalato loro questi stupendi e simpaticissimi 19 anni di te! Del tuo sorriso, delle tue prese in giro, della tua determinazione, del tuo saper andare oltre le cose e non appesantire tutto. Hai fatto pregare un sacco di gente fratellino.
Ricordo quando ti ho conosciuto la prima volta: Lori mi aveva chiesto se a settembre potesse venire suo fratello Ale a fare l’animatore, e grazie a lui tu sei arrivato. Ho notato subito che non eri chiacchierone come lui, ma ti impegnavi molto ugualmente. Sono felice che tu sia entrato in questo luogo, perché nel giro di poco tempo l’oratorio non solo è diventato un’estensione di casa tua (e casa tua un’estensione dell’oratorio…), ma anche perché qui hai conosciuto gli amici più importanti della tua vita. Amici che tu stesso hai contribuito a mettere e rimettere insieme. Succede sempre così nelle amicizie: quando arriva un amico nuovo, se è un amico vero come te, l’amicizia si ravviva e cresce. Tu questo sei stato per i tuoi amici, anzi, lo sei ancora adesso: non vedi che sono ancora tutti qui grazie a te? È pochi giorni che manchi e già sei riuscito a far entrare ancora di più Richi nella cerchia dei tuoi amici. Questi amici che ti hanno accompagnato, che ti hanno voluto bene, con quei tre pazzerelli che ti hanno seguito fino in America per non lasciarti da solo nella prova, con tutti quelli che ci sono stati per te. E a vederli come ti amano ancora adesso c’è proprio da piangere, perché questa è un’opera di Dio, anche se forse non ci hai mai fatto caso, ed è un balsamo per i tuoi genitori, i tuoi fratelli e la tua famiglia.
Sei stato cemento per le amicizie con la tua spensieratezza mai preoccupata di come stavi, ma di cosa avevi da fare. Non preoccupata per qualcosa, ma occupata nelle cose. Non ti ripiegavi su di te, ma pensavi sempre in maniera molto pratica “cosa posso fare ora?”. In ogni cosa davi il massimo, senza mezzi termini: in famiglia, nello studio, nel piano, nel calcio, con gli amici, nella malattia… agli inizi ti dicevo “ma riesci a studiare?” e tu mi dicevi “sì, la sera dopo gli allenamenti, alle 22:30” ed era veramente così. Ho smesso di chiedertelo perché capivo che ce la facevi a stare dentro con tutto. Anche da educatore hai sempre dato tantissimo e in questi ultimi mesi il venerdì era l’unica cosa che non volevi lasciare, l’unico spazio di impegno normale che volevi custodire dentro alla grande fatica. E quest’estate che sei venuto all’oratorio estivo dopo gli esami, e ti facevi vedere dagli altri senza problemi, e il campo scuola in montagna a cui non hai voluto mancare: che esempio è stato per i ragazzi! Nella tua semplicità una forza enorme.
E hai saputo anche voler tanto bene: le attenzioni che hai avuto anche per i tuoi e per i tuoi fratelli anche durante la malattia, quando appena prima di essere operato ti sei preoccupato affinché la mamma avesse un letto per dormire in camera tua e non solo una sedia, o chiedendo ai tuoi fratelli perché saltassero i loro impegni. Dicevi “ti voglio bene” in questo modo, non con le parole. Dire “ti voglio bene” è importante, e solo una mamma sa quanto possa contare un “ti voglio bene”.
Lo sai cosa mi ha sempre stupito e rallegrato di te, caro Ale? È che non solo non hai mai voluto essere considerato un ammalato (come tutti), ma sei anche stato capace di non farlo sentire agli altri. Stare con te ammalato, stanco, senza un pezzo di braccio era come stare con te prima di tutto questo. E lo facevi con una bellissima, ostinata tenacia, dal tagliare il prosciutto per la pizza con una mano sola al giocare a spikeball con un braccio solo e mi battevi comunque! E facevi le battute sull’essere senza un braccio tre settimane dopo l’operazione! Ci hai fatto ridere tutti quel giorno, e con le tue battute politicamente scorrette ci hai confortato, tu che dovevi essere confortato da noi. Ci sono stati però tanti momenti, lo sai, in cui le cose non riuscivi a farle da solo: in famiglia, con gli amici… e allora era bello poterti vedere in piedi mentre un amico, inginocchiato davanti a te, ti allacciava le scarpe: quanta tenerezza che hai ricevuto. La malattia forse ti ha aiutato a fare una cosa che prima facevi poco: chiedere aiuto. Credo tu abbia scoperto, pur volendo continuare a fare tutto in autonomia, che dipendere dall’altro è anche l’occasione per lasciarsi amare nella nostra fragilità. È una grande cosa imparare a lasciarsi amare.
«Cosa faresti – chiese un compagno durante la ricreazione a San Luigi Gonzaga – se tu sapessi di dover morire all’istante?». «Continuerei a giocare» rispose sicuro Luigi. Quanto ho pensato a questo aneddoto in questi due anni, questo ultimo soprattutto. Fare ciò che c’è da fare. La tua forza nella malattia è stato un conforto per i tuoi. Tutte queste cose belle le abbiamo viste con sempre più chiarezza in questi due anni di prova: la prova, infatti, fa venir fuori quello che siamo. Tu ti sei rivelato esattamente per quello che sei. In piedi per mezz’ora dopo ore di incoscienza con saturazione a 75: quasi a dire “provatemi a sedare e vi lancio la bombola dell’ossigeno in faccia”. E la tua risata, ne sei stato capace fino alle ultime ore prima di andartene, quando ti raccontavo della signora della Pelucca che aveva insultato tutti. E quando mi ero fermato mi hai detto “quindi?” perché dovevo continuare a raccontarti. E tu mi ascoltavi, con quale forza tu solo lo sai, con quale attenzione solo Dio lo sa.
E allora perché in questi giorni insieme alle tantissime lacrime stiamo mescolando così tante risate? Può una morte unirci così tanto? Perché con la tua famiglia e i tuoi amici ci siamo dovuti fermare in alcuni momenti e ricordarci che non stavamo preparando una festa? E tuttavia, insieme a questa sofferenza che si innalza fino al cielo del buon Dio, non possiamo trattenerci dall’essere contenti per essere stato qualcuno per noi, per continuare a esserlo, ed è per questo oggi facciamo tutte queste cose un po’ pazze e colorate in un momento triste. Perché tu sei con noi anche ora, e non possiamo essere soltanto tristi. Lo siamo tanto Ale, tanto, ma c’è anche qualcos’altro che non riesco a dire se non con queste parole che non sanno spiegare la dolcezza e il bene di questi giorni. Io penso che davvero questa sia un’opera di Dio.
Ma se questa è l’opera di Dio, allora perché c’è tanto dolore? Non poteva esserci un’altra strada? Non potevamo evitare la via della croce? Gesù doveva per forza portare su di sé tutto il nostro dolore? Invece di condividerlo con noi, non poteva far sì che non esistesse?
Tentare di dare una spiegazione o normalizzare questa sofferenza sarebbe come tentare di riempire l’oceano con il contagocce, questo è quello che dice tuo papà. Mi trova molto d’accordo. Quello che possiamo fare con Gesù è tenere aperta, spalancata la nostra domanda a Lui, il nostro grido d’abbandono che è anche il Suo, continuare a mendicare Lui come Lui continua a essere mendicante di noi con il suo eterno “ho sete”. E noi sappiamo che in questa sete Sua, che è la sete nostra, Dio ci può dare un’acqua che solo Lui può darci, l’unica acqua che dà senso alla nostra sete, non eliminandola, ma colmandola della Sua presenza. Della Sua dolcissima e tenerissima presenza.
Grazie Ale, perché a tutti hai dato almeno un insegnamento: a non morire prima della morte. Sei stato così ostinato a voler vivere e a non morire prima del tempo che anche ora la tua vita pulsa dentro di noi con battiti intensissimi.
Grazie Ale, perché ci hai fatto un regalo: non ci hai consegnati a un dolore che non potremo affrontare, che non sapremo gestire. Con il tuo modo di essere ci hai dato gli strumenti per stare in questa sofferenza, per viverla in maniera non disperata, sotto lo sguardo del Padre buono che ora vedi in tutta la sua bellezza.
Grazie Ale, supernova splendente, spensierato fratellino, prodigio di Dio”.