Gio. 28 Mar. 2024
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Gino Strada dalla Sierra Leone: “Forse tra poco l’epidemia sarà sconfitta”

[textmarker color=”E63631″]SESTO SAN GIOVANNI[/textmarker] – “Forse ci siamo. Forse si riesce a sconfiggere questa epidemia”. Sono parole confortanti quelle che arrivano dalla Sierra Leone, dove si sta combattendo una delle battaglie in prima linea contro il virus Ebola. A scriverle è il medico Gino Strada, originario di Sesto, solo pochi mesi fa premiato dal Comune con la benemerenza civica, consegnata in occasione dei 20 anni dell’associazione fondata da lui e dalla moglie Teresa, Emergency.

Nella lettera, pubblicata sulla sua pagina facebook, oltre ad aggiornare con questo importante messaggio di speranza, Gino Strada traccia il punto della situazione, raccontando delle strutture che Emergency ha realizzato. Si tratta di strutture sanitarie e ospedaliere pensate per garantire anche in Africa lo stesso livello di cura dei paesi occidentali. Questo livello si raggiunge grazie alla grande determinazione del fondatore e della sua “squadra” e al grande impegno di professionisti, volontari e sostenitori, in ogni parte di Italia e nelle missioni in giro per il mondo.

Sempre per raccogliere fondi, il comitato sestese di Emergency organizza uno spettacolo di teatro civile per sabato 31 gennaio. Alle 20,45 al teatro Manzoni di piazza Petazzi a Sesto andrà in scena “Moro e i 55 giorni che cambiarono l’Italia”, scritto da Ferdinando Imposimato e Ulderico Pesce, che ne è anche regista e interprete. L’ingresso è a offerta libera e i soldi raccolti saranno divisi tra l’associazione Emergency e il progetto di ristrutturazione della villa Pelucca di Sesto.

Di seguito la lettera integrale scritta da Gino Strada

«Forse ci siamo. Forse si riesce a sconfiggere questa epidemia. Il numero di nuovi casi sta diminuendo rapidamente ogni giorno, speriamo non si verifichino nuove impennate. Forse tra poco potremo dire che l’epidemia di Ebola è finita in Sierra Leone. Ma che fatica! E quanti miracoli ci sono voluti.

Quando in agosto il Ministero della Sanità ci ha chiesto di aprire a Lakka un centro di isolamento per i casi sospetti, in sole tre settimane i nostri logisti hanno realizzato una struttura in tende per un totale di 22 letti, che presto si è trasformata anche in centro di trattamento: troppi pazienti, accasciati fuori dal cancello, prostrati dalla malattia e in attesa di un posto letto.

Così è iniziata la corsa per metterci in condizione di curare i pazienti, non solo di isolarli e osservarli: assicurare acqua e energia elettrica, garantire procedure e percorsi di sicurezza, assicurare aria condizionata per diminuire la fatica fisica degli operatori rinchiusi in un caldissimo scafandro, e finalmente iniziare a curare i malati. Perché anche in assenza di una cura specifica per la malattia si possono salvare molte vite, se si riesce a capire qualcosa di questa grave malattia ancora in gran parte sconosciuta, se si hanno gli strumenti e i farmaci più adatti.

Così un passo dopo l’altro, tra grandi difficoltà, abbiamo messo a punto un laboratorio di biochimica, poi uno di virologia, sono arrivati i monitor, le pompe per infusioni endovenose, un altro laboratorio per la virologia, i ventilatori per intubare i malati più critici, le macchine per la dialisi.

In soli tre mesi siamo riusciti ad allestire una terapia intensiva come quelle che si trovano nei centri specializzati in Europa e in USA, che hanno trattato una trentina di pazienti con una mortalità inferiore al 30 per cento. Due pazienti su tre sono guariti nei paesi ricchi, due su tre sono morti nell’Africa povera. Per assenza di cure.

Adesso le cose sono cambiate. Oggi siamo in grado, nel nuovo centro da 100 letti di Emergency a Goderich, di fornire qui in Sierra Leone quasi lo stesso livello di cure disponibili in Occidente. Abbiamo una terapia intensiva di alto livello, l’unica esistente nel Paese, che forse non servirà per molto tempo se l’epidemia di Ebola (come speriamo) si sta avviando alla conclusione. Ma servirà comunque, per la prossima volta, e per curare nel frattempo tanti malati gravi, fino a ieri incurabili.
Ne siamo orgogliosi, perché abbiamo dimostrato che si può fare, anche qui in Africa. Perché abbiamo reso visibile, ancora una volta, che i pazienti non hanno colore, che sono persone con i nostri stessi diritti. Liberi e uguali, come noi tutti vorremo essere. Qualche mese fa dissi, un po’ frettolosamente, ”se mi ammalo di Ebola resto in Africa”. Oggi lo posso affermare con tranquillità e convinzione: mi farei curare nell’ ETC (Ebola Treatment Centre) di Emergency.

Nel corso degli anni, dando vita a molti ospedali, ci siamo chiesti spesso “ma come deve essere un ospedale, in Iraq o in Centrafrica, in Sudan o in Afghanistan? Quali strutture, che equipaggiamento, quali terapie devono essere possibili?”. Abbiamo risposto nel modo più semplice, più umano: un ospedale è “di Emergency”, va bene per “loro”, se va bene anche per noi, per i nostri cari, per tutti noi. Perché l’eguaglianza è anche questo, condividere gli stessi diritti ed essere parte di un destino comune.

Gino

Freetown, Sierra Leone, 18 gennaio»

(foto e testo tratti dalla pagina facebook di Gino Strada, grassetto nostro)

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